E pensare che Mark Zuckerberg (fondatore e CEO di Facebook) era stato abbastanza chiaro quando l’11 Aprile 2018 alla domanda del Senatore Orrin Hatch che gli chiedeva “Se Facebook è gratis, allora come fate i soldi?” aveva risposto “Senator, we run ads!” (“Senatore, noi usiamo la pubblicità!”). Una situazione surreale in cui si faceva davvero fatica a comprendere se la domanda del senatore fosse seria oppure no, ma probabilmente la risposta è tutta nell’espressione divertita ed incredula di Zuckerberg, come quando il professore ti fa una domanda senza comprendere nemmeno i fondamentali dell’intera materia che pretende di insegnare e tu, davvero, fai fatica a trovare la risposta adeguata che lui possa comprendere senza offendersi e darti un brutto voto.
Il modello di business basato sul servizio gratuito sostenuto dalla pubblicità non è infatti una novità e deriva dalla cara vecchia televisione generalista commerciale: ti fornisco programmi TV, tu li guardi e ti sorbisci la pubblicità che ti influenzerà in modo che tu domani comprerai i prodotti reclamizzati.
Questo modello si è ulteriormente rafforzato ed estremizzato con l’avvento dei social network che, con il nostro esplicito consenso, utilizzano i dati che noi stessi concediamo loro (i nostri pensieri, le nostre foto, i nostri messaggi pubblici e privati, i nostri like, le nostre ricerche su internet, ecc.) con l’obiettivo di fornirci pubblicità mirata e personalizzata, in modo da massimizzarne l’efficacia, si genera quindi un perfetto “do ut des”, tu mi dai i volontariamente tuoi dati e io ti fornisco il servizio, tu vendi la pubblicità degli inserzionisti e loro mi pagano.
Ecco quindi nascere il prezioso detto “se il prodotto è gratuito allora il prodotto sei tu” che sintetizza perfettamente questa situazione.
Tutto questo meccanismo funziona fino a quando le piattaforme rimangono intermediari e terzi rispetto ai contenuti, non entrando nel merito di quello che gli utenti scrivono e pubblicano e non inserendo nessun grado di moderazione, cosa che però non è facile perché se si vuole aumentare costantemente il numero degli utenti, è necessario tentare di garantire un ambiente che sia il più “pulito” e confortevole possibile, ecco allora entrare in gioco “gli standard della comunità” per dirla alla Facebook o “le Regole” per dirla alla Twitter. Una serie di linee guida che non devono essere infrante, pena il blocco della pubblicazione, la sospensione dell’account o, nei casi più gravi, la sua completa disattivazione. Ecco quindi la scomparsa quasi totale di materiale illegale e di contenuti che contravvengano alle regole imposte dalle piattaforme ed ecco il primo grande distacco dei social network dalla totale libertà di parola ed espressione garantita dalla rete Internet.
Sulla rete chiunque può registrare un dominio ed iniziare a pubblicare quello che vuole, senza nessuna limitazione o censura, se poi quello che scrive verrà giudicato diffamatorio, lesivo di qualche diritto di altri o indicatore di qualche reato, sarà la giustizia ad occuparsene, facendo oscurare il sito e perseguendo l’autore del materiale ritenuto illegale.
Sui social invece il limite di quello che si può pubblicare o no non dipende dalle norme dei vari stati, dipende dagli “standard della comunità”, dalle “regole” che i social si sono dati in autonomia e che sono state accettate dagli utenti come condizione per utilizzare la piattaforma. Questo significa che su un social network si può pubblicare un contenuto perfettamente legale e vederselo cancellare, o peggio vedersi sospendere o cancellare l’account, perché quel contenuto ”viene interpretato” come irrispettoso delle regole dagli algoritmi che tentano di mettere ordine.
Le cose si complicano ulteriormente quando le piattaforme tentano di mettere un freno alle “fake news”, quelle notizie false costruite ad arte per attirare gli utenti e fare in modo che clicchino su particolari link oppure, e qua viene il bello, per cambiare l’orientamento politico degli elettori. Sappiamo tutti che la propaganda politica è quasi sempre molto lontana dalla verità, ma l’estremizzazione di questo comportamento è la costruzione di vere e proprie reti di generatori di notizie false e di finti follower in grado di prendere queste “non notizie” e farle rimbalzare sui social con migliaia e migliaia di condivisioni. Si arriva dunque all’inquinamento informativo dell’elettorato, composto per buona parte da persone che non si informano, che non leggono oltre i titoli dei quotidiani online e che si fanno quindi influenzare pesantemente da notizie false, meme e contenuti politici che di politico hanno pochissimo, ma che hanno una grande presa sull’opinione pubblica.
Tutto questo, sfortunatamente, ha un enorme peso sulla qualità dell’informazione ed inevitabilmente finisce per influire sui risultati elettorali.
Siamo quindi nel paradosso che chi fosse in grado di proporre contenuti politici e sociali di valore, di fornire soluzioni vere e concrete per il paese in cui opera, di garantire benessere di lungo periodo, verrebbe comunque sconfitto alle elezioni dai chi fosse in grado di manipolare l’opinione pubblica con notizie false e con orde di condivisori seriali compulsivi.
Le piattaforme social sono quindi state accusate in passato di aver concesso la pubblicazione di fake news indirizzate all’influenza dell’elettorato degli indecisi e determinare quindi gli esiti di alcune elezioni nel mondo. Probabilmente il caso più famoso è riferito all’azione di 470 account finti che avrebbero speso centomila dollari per sponsorizzare post in grado di influenzare l’opinione pubblica e convincerla a votare Trump invece di Hillary Clinton. In quel caso si trattava in massima parte di contenuti controversi o falsi scritti ad arte per alimentare discussioni e polemiche su temi molto caldi in USA, come i diritti delle persone LGBT, la libertà di comprare armi o l’immigrazione.
Per mettere un freno a questa situazione alcuni social hanno deciso di intervenire direttamente sui contenuti, in alcuni casi cancellandoli, in altri casi inserendo opportuni marcatori di “non attendibilità” del contenuto pubblicato, per segnalare al lettore che quel contenuto potrebbe contenere notizie false. Inserendo quindi una sorta di moderazione del contenuto stesso, una “revisione editoriale” del contento, che entra nel merito, lo giudica e ne determina il livello di veridicità.
La piattaforma non è più quindi terza rispetto a quello che gli utenti pubblicano, ma effettua valutazioni di merito sul singolo contenuto determinando se quell’informazione ha dignità di essere pubblicata oppure no o se all’informazione sia necessario aggiungere un piccolo tag che dica “Se vuoi conoscere i fatti veri clicca qua”.
Questo approccio cambia totalmente il paradigma di diffusione dei contenuti sui social, se prima si andava sulla piattaforma per leggere il pensiero disintermediato di un politico, di un filosofo o di un attore, da domani potremmo andare sulla piattaforma per leggere lo stesso pensiero, ma mediato da un terzo che potrebbe determinare cosa, come e quando un certo contenuto potrebbe essere pubblicato, esattamente quello che accade oggi con molte testate giornalistiche tradizionali, che spesso tentano di sottolineare gli aspetti positivi di quelle situazioni a cui gli editori sono più vicini e di evidenziare invece gli aspetti negativi delle altre. Non si tratta di mentire, si tratta di dare la notizia in modo diverso e di nascondere o minimizzare le notizie scomode, lo sappiamo benissimo come funziona.
Ecco quindi che la guerra in corso tra Trump e Twitter, con tweet che vengono etichettati come “fake”, con minacce di interventi politici all’autonomia delle piattaforme e con altri tweet che vengono nascosti perché giudicati portatori di “incitamento all’odio”, assume un significato molto più grande e complesso rispetto alla caratura degli attori in gioco ed è bene che iniziamo a farci qualche domanda.
È giusto che un politico utilizzi come canale istituzionale di comunicazione alla popolazione una piattaforma privata dovendo sottostare ai suoi “standard della comunità” o alle sue “Regole” che potrebbero in qualche modo limitare la sua libertà di espressione e di comunicazione verso il suo elettorato o verso il Paese che governa?
È giusto che un politico racconti bugie e propagandi fake news allo scopo di circuire politicamente la parte più debole della popolazione e convincerla a votare per lui?
È giusto che una piattaforma istituisca delle regole che, nei fatti, limitano la libertà di espressione delle persone, anche se i contenuti pubblicati non violano alcuna legge? Per rispondere a questa domanda si tenga conto che il servizio non è gratuito, ma è pagato con i nostri dati, in caso contrario non sarebbe economicamente sostenibile e non esisterebbe.
È giusto che una piattaforma decida cosa è e cosa non è una notizia falsa e di conseguenza si arroghi il diritto di limitare la pubblicazione di quelle ritenute false?
Le piattaforme sono “social” che mettono in comunicazione le persone, e quindi non intervengono e non sono responsabili dei contenuti che vengono pubblicati dagli utenti, oppure sono “servizi editoriali” che verificano e moderano la qualità dei contenuti e quindi ne sono pienamente responsabili in ogni situazione e per tutti gli utenti? È possibile una posizione intermedia?
Ha senso iniziare a pensare a piattaforme social e di comunicazione aperte, gratuite, basate su standard condivisi, senza pubblicità, senza moderazione e che operino come “servizio pubblico” come avviene per alcuni network televisivi? Una evoluzione naturale della rete che unisca la libertà ed apertura con la possibilità offerte oggi dalla comunicazione sociale. Ha senso?
Infine la domanda delle domande: cos’è una fake news?